La casa e il diritto alla vita indipendente delle persone più fragili

Il sostegno all’abitare per superare i ‘cronicari’, la battaglia politica portata avanti dalla Conferenza Nazionale per la Salute Mentale. Un seminario per raccontare le esperienze e le difficoltà di chi sta lavorando a una rivoluzione troppo spesso dimenticata 

Sabato 6 marzo si è svolto un’interessante, e importante, seminario dal titolo Sostegno all’abitare: dalla struttura residenziale a casa propria. Esperienze, ostacoli, soluzioni per il diritto alla vita indipendente, organizzato dalla Conferenza Salute Mentale, rete di realtà pubbliche e private che lavorano nell’ambito della salute mentale, e non solo, che mira alla restituzione dei diritti di cittadinanza e a un drastico aumento della qualità di vita e delle possibilità di autodeterminazione delle persone che vivono un disagio mentale grave. 

Entrando più nello specifico, l’obiettivo di questa rete nazionale è superare il fenomeno dell’istituzionalizzazione, ossia della permanenza a vita in residenze sanitarie lontane dal proprio contesto di vita, dalle relazioni sociali e dagli affetti della persona in cura presso i servizi sanitari. 

«Nel linguaggio sociologico, e anche nella medicina sociale, – per istituzionalizzazione, si intende – l’internamento e il trattamento clinico e giuridico – penale in un’apposita istituzione» (da treccani.it), separata dal territorio di riferimento della persona in cura. Tale condizione comporta di per sé importanti conseguenze a livello comportamentale, conosciute in letteratura come “nevrosi istituzionale”, una condizione clinica caratterizzata da chiusura in se stessi, indifferenza verso il mondo esterno, apatia, regressione a comportamenti infantili, atteggiamenti stereotipati, rallentamento dei pensieri e deliri di persecuzione. Nellistituzionalizzazione protratta nel tempo, la persona perde la propria identità, fatta di abitudini, di oggetti, di relazioni, per diventare oggetto, funzione dell’istituzione in cui è costretta a vivere. 

Diversamente, esistono esperienze e progetti che perseguono e realizzano il diritto alla vita indipendente delle persone con sofferenza psichica e/o disabilità. Persistono, tuttavia, anche vecchie e nuove forme di internamento che ripropongono, pure in Italia, nell’intreccio tra cura e custodia, il modello dei cronicari, scatole nelle quali depositare le persone considerate fragili, escludendole dal consesso sociale, deprivandole dei diritti di cittadinanza, troppo spesso mortificandone la loro stessa dignità. 

Dietro ogni bisogno sanitario, infatti, c’è una vita e ci sono bisogni sociali della persona: avere un posto dove stare, dove sentirsi a casa, una socialità, delle possibilità concrete di formazione e inclusione lavorativa. Questi aspetti non possono essere marginali in un progetto terapeutico individualizzato che metta al centro la persona. Diversamente, sono aspetti centrali nel benessere mentale di un individuo e la loro mancanza influisce e co-determina la sofferenza psicopatologica dei cosiddetti utenti dei servizi di salute mentale. L’isolamento, la solitudine, la mancanza di una rete sociale e di un progetto di vita sono fattori di rischio importanti che portano a una disperazione che favorisce le ricadute e la cronicizzazione del disagio mentale. 

C’è stata una grande partecipazione al seminario online a dimostrazione di quanto siano sentite queste tematiche. Il seminario si è diviso in due sezioni: la prima, Oltre le residenze, contro i cronicari, riconvertire risorse e strutture, coordinata da Maria Grazia Giannichedda, presidente della Fondazione Franca e Franco Basaglia, la seconda, Diritto all’abitare. Esperienze e strumenti per la vita indipendente, coordinata da Gisella Trincas, storica presidente dell’UNASAM. 

 

Nella prima sessione si sono affrontate le questioni inerenti a obiettivi, difficoltà, risorse e procedure che, nei diversi contesti e territori, definiscono od ostacolano l’orizzonte teorico e operazionale di lotta ai cronicari, superamento delle residenze, riconversione delle risorse e delle strutture, individuando, al contempo, quali azioni e programmi dovranno essere messi in campo per indirizzare gli interventi del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza verso questi obiettivi. 

Come affermato da Maria Grazia Giannichedda, purtroppo, «si sta rigenerando l’istituzionalizzazione della cura in salute mentale, con l’idea di dare protezione in cambio di diritti». Parlare di queste tematiche, senza farsi schiacciare dall’emergenza pandemica, è fondamentale, ricordando il modo specifico in cui la pandemia ha messo sotto pressione il sistema salute mentale: un sistema in cui, ancora adesso, come ci ricorda Anna Poma del Mad Pride, permane una costante infantilizzazione delle persone con disagio mentale, anche quando queste hanno 40, 50 o 60 anni. Stando all’emergenza Covid19, Anna Poma denuncia il fatto che «durante la pandemia, molte persone nelle comunità non sono uscite neanche d’estate», sperimentando un isolamento, anche dai familiari stessi, molto rigido. E i luoghi di cura istituzionalizzati, come le case di riposo, le cliniche e le residenze sanitarie, sono stati quelli maggiormente colpiti e messi in crisi dal Covid19. A pagare le conseguenze della situazione, quindi, anche le persone con disabilità e gli anziani, ossia tutti i soggetti più fragili. Lo certifica l’Organizzazione mondiale della sanità: «La metà delle vittime del Covid-19 si trovava nelle case di cura e nelle strutture di degenza a lungo termine», disse l’anno scorso, il direttore dell’Oms per l’Europa, Hans Kluge. Dati riportati nel corso del seminario, anche da Pietro Barbieri, membro del CESE (Comitato Economico Sociale Europeo), che ha sottolineato come dietro il fenomeno dell’istituzionalizzazione ci siano interessi, anche economici, molto importanti. 

Interessi contrapposti che portano a un disequilibrio importante di spesa tra la parte sanitaria e la parte sociale nella distribuzione di risorse per i progetti di cura con inevitabili problemi nell’annoso, e mai risolto, problema legato alla mancanza di integrazione socio-sanitaria nella logica degli interventi realizzati dal settore pubblico. «Sono circa 370 mila le persone ricoverate in strutture residenziali, in Italia, con una spesa intorno ai 18 miliardi – afferma Pietro Barbieri – La spesa per le indennità di accompagnamento è intorno ai 12 miliardi, mentre ai comuni sono destinati 4 miliardi per la spesa sociale. C’è un disequilibrio tra spesa sanitaria e sociale». Aspetti ripresi anche da Nerina Dirindin, senatrice e membro della Commissione per riformare l’assistenza sanitaria e socio-sanitaria nell’ambito del SSN, istituita l’anno scorso proprio per l’emergenza Covid, sottolineando che «è fondamentale capire come potenziare l’assistenza domiciliare», primo vero argine contro forme di istituzionalizzazione inappropriate. 

D’altra parte, citando Franco Basaglia, «per poter veramente affrontare la malattia dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare ruoli congelati a coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?». Citazione riportata durante il seminario da Mimmo Castronuovo del Consorzio Cascina Clarabella, che ha anche affermato: «cos’è un territorio ricco di opportunità? È un territorio messo in condizione di poter dare risposte in ambito lavorativo, per la casa e per le opportunità di socialità». 

Nella seconda sessione del seminario, è stata data voce alle realtà che provano a creare, ognuno nel proprio contesto di riferimento, queste opportunità. Sono stati approfonditi le normative di riferimento e gli strumenti economici utilizzabili e utilizzati per realizzare progetti di vita indipendente, abitare condiviso e abitare assistito, portando le testimonianze dirette di quanti, su questi temi, hanno realizzato esperienze significative. Partire dalla concretezza di esperienze già avviate è fondamentale per costruire quel corpus di conoscenze utili per estendere un modo nuovo di prendersi cura e farsi carico di persone che per motivi di salute e/o marginalità sociale hanno perso la propria autonomia. In questa sessione sono stati indicati gli strumenti normativi e organizzativi locali e/o nazionali adottati, le maggiori difficoltà incontrate, le prospettive di sviluppo dei diversi progetti presentati. Un modo per condividere difficoltà, ma anche una boccata di ossigeno per chi porta avanti questi progetti così complessi, spesso nel totale isolamento istituzionale. Ritrovarsi in tanti, di per sé, è stato un fatto molto positivo. Riportiamo alcuni passaggi, per noi molto significativi, del seminario. 

«Noi della Cooperativa sociale “Panta Rei” di Verona stiamo cercando di ricomporre la frattura tra il sanitario e il sociale e tra il diritto all’abitare e il diritto al lavoro. Nel momento in cui si creano delle opportunità che ricostruiscono questa duplice frattura, i percorsi di riabilitazione e di cura diventano più veloci, le persone riescono a recuperare e a reinserirsi nel tessuto sociale facendo in modo che i percorsi nella nostra comunità alloggio siano più brevi di quelli attuali che tristemente si prolungano.» (Elena Brigo). 

«La situazione nella Regione Lazio è difficilissima. A noi manca lo psichiatra. Inoltre molto spesso gli operatori non sanno nemmeno che esistono i gruppi appartamento o opportunità simili di residenza e quindi le persone vengono indirizzate in comunità, che sarebbero le ex-cliniche sempre perché non si è a conoscenza di altre alternative come questi gruppi appartamento. Dunque per fare un progetto di inserimento in un gruppo appartamento ci abbiamo messo circa un anno. Un altro problema è quello di dover tornare nella casa di origine una volta terminato il progetto, purtroppo da noi i progetti sono a termine. Nel momento in cui in comunità o nel gruppo appartamento si avvicina il giorno in cui tornare a casa ecco che scoppia la disperazione, perché quando si apprezza il vivere paritario con altri dover tornare nelle dinamiche della famiglia è devastante. Siamo tornati indietro di secoli.» (Elena Canali, Associazione per la salute mentale “Volontari in onda” di Roma). 

«C’è la necessità di lavorare per una rivoluzione culturale nei confronti delle amministrazioni sia locali che regionali e non a livello ministeriale per far comprendere che sviluppare nuovi percorsi di residenzialità intesa in un contesto civile, non di residenzialità sanitaria, sociale o psichiatrica porta innanzitutto ad un miglioramento netto della qualità della persona seguita, ma anche un risparmio di spesa, la quale potrebbe essere investita, riconvertita per  migliorare i servizi territoriali dei centri di salute mentale che sono disastrati.  

Inoltre, se nei piccoli centri fuori Roma è possibile fare aprire gruppi appartamenti di salute mentale, a Roma è molto più complicato, se non in alcuni casi impossibile, poiché ci sono troppi interessi economici contrastanti, nel Lazio ci sono troppe istituzioni del privato accreditato che remano contro il nostro obiettivo. L’unica cosa possibile è costruire piccole realtà sparse un po’ dappertutto grazie alla tenacia di familiari che si espongono anche economicamente. Si va avanti grazie al supporto che si riesce a creare con poteri forti anche a livello locale o regionale. È una continua lotta per non regredire (Marina Cornacchia dell’A.RE.SA.M. ONLUS di Roma). 

«Andando a vedere diversi territori emerge che ci troviamo di fronte a un problema di ordine nazionale, non certo locale perché è un po’ dappertutto. Si è sentita l’esigenza di passare dalla residenzialità all’abitare, alla vita indipendente, alla restituzione di diritti, di possibilità, alle persone che vivono l’esperienza della sofferenza mentale e non solo… Questa questione dell’abitare, dell’abitare nella propria casa, dell’abitare nel proprio contesto di vita, nel proprio quartiere, nella propria città, nella propria regione, è una questione che noi stiamo portando avanti nel dibattito pubblico da parecchio tempo, lo abbiamo fatto nel 2019 e lo faremo anche quest’anno.  

Non esiste un indirizzo nazionale che vada verso questa direzione se non la Legge quadro sulla vita indipendente del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali che riguarda però prevalentemente le persone con disabilità gravi e gravissime; il mondo della salute mentale è un altro mondo, che aspira a distaccarsi e a non arrivare alla disabilità grave e gravissima bensì aspira a fare percorsi di cura e di ripresa orientati alla guarigione e alla ripresa dell’autonomia, una guarigione che restituisca la possibilità di stare nella propria casa oppure sperimentare altre soluzioni. Quello che accade nella Salute Mentale è che i servizi come risposta prevalente inviino le persone nelle comunità anche nelle comunità terapeutiche, anche quelle più piccole, in cui la stragrande maggioranza delle persone escono per entrare in altre comunità terapeutiche oppure in altre strutture residenziali magari più socio-assistenziali. 

Parleremo di come è possibile costruire percorsi di vita indipendente con quello che abbiamo o ipotizzando altri strumenti che non abbiamo ma che saranno da noi indicati o ai governi regionali o al governo nazionale (Gisella Trincas). 

«Il dipartimento dell’Asl Roma 2 è impegnato ormai da alcuni anni nell’apertura di appartamenti nel tessuto cittadino e abbiamo fatto anche una delibera che abbiamo chiamata “piano nel supporto all’abitare in salute mentale”, questa delibera è importante perché assume 2 principi. Il primo è che gli appartamenti non sono strutture ma civili abitazioni, il secondo è che non necessitano di autorizzazione a livello regionale e questo è un fatto fondamentale. Noi ad oggi abbiamo 24 appartamenti aperti nei vari condomini del nostro dipartimento di S. M. con 82 utenti. Il nostro intento è che abitare in questi appartamenti sia una fase di passaggio per il periodo di tempo necessario per raggiungere una fase autonoma nei propri propria appartamenti con un’assistenza, un affiancamento che sarà sia all’interno dell’appartamento ma in special modo all’esterno cioè al di fuori. Il proposito è quello di costruire relazioni o reti di cittadinanza con utenti che possano acquisire capacità di autodeterminazione, di responsabilizzazione e di integrazione sociale e territoriale. Su questi principi abbiamo anche promosso un progetto europeo che si chiama “Hero” dove abbiamo coordinato un gruppo di lavoro con la Croazia, il Belgio, la Gran Bretagna e la Grecia che ha prodotto un E-book in 5 lingue che parla di come aumentare le conoscenze e le competenze in S.M. e abbiamo prodotto anche un curriculum, una specie di Vademecum europeo proprio sull’abitare il quale attesta che non è sulla casa che si vince la scommessa ma sulla costruzione di diritti al di fuori della casa, un po’ come ci ha insegnato Franco Basaglia che restituire una cittadinanza a chi è inserito nella salute mentale è terapeutico. 

C’è una necessità che noi avvertiamo di una implementazione di abitare nella S.M. di idealizzazione di linee guida nazionali per evitare quello che è già successo, per esempio la storia giudiziaria di Sassari o come quello che è accaduto in Piemonte dove gli appartamenti sono diventati delle strutture. C’è bisogno che queste linee guida nazionali restituiscano il valore scientifico dell’abitare in S.M. che chiariscano una volta per tutte che le abitazioni non devono essere strutture da autorizzare ma civili abitazioni con progetti a carico della Asl, perché poi è paradossale che noi da anni parliamo dell’abitare ma da nessuna parte è scritto dell’abitare in S.M. quindi è venuto il momento di parlare di questo in senso istituzionale anche perché abbiamo la necessità di un nuovo impulso per implementare l’edilizia pubblica rispetto all’abitare perché poi non è semplice, soprattutto nelle grandi metropoli trovare abitazioni disponibili per  poter aumentare e implementare questa progettualità, una progettualità che si integra col budget di salute.» 

(Massimo Cozza, direttore del dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 2). 

«Come tutti i piccoli comuni del nostro territorio abbiamo intercettato diversi finanziamenti pubblici e abbiamo ristrutturato i centri storici del nostro paese e abbiamo ristrutturato alcuni alloggi: 23 comunità abitative sono state assegnate a diverse tipologie di persone. A volte ci sembra di essere ai margini ma è proprio ai margini che l’attenzione alle persone, alla disabilità, al “diverso” sono ancora più forti. Nel nostro piccolo abbiamo investito molto perché crediamo in progetti di questo tipo. Oggi volevo portare ottimismo e possibilità di farcela (Carlo Grosso, assessore del comune di Valdilana).                                                                               

«Nel 2007 abbiamo iniziato un progetto non accreditato chiamato “Ulisse” seguendo 15 persone per una media di 3 anni a testa, 10 di queste sono state dimesse in situazione di maggior autonomia abitativa, chi ha avuto una casa popolare chi ha ereditato la casa dai genitori altri sono andati in affitto. Mi ritrovo molto nelle parole di Massimo Cozza ovvero penso che si può fare anzi si deve sostenere forme di abitare anche se non accreditate purché che siano improntate a favorire un miglioramento della propria autonomia e dove possibile aiutare a dare alle persone un’autonomia superiore.   

Noi abbiamo deciso di mettere a confronto le nostre realtà perché noi crediamo nell’aspetto complementare dell’abitare, perché è una risorsa come strumento di cura, perché possono dare altri tipi di supporto. Abbiamo scritto un E-book che si chiama “I modi dell’abitare”. Tornare al termine “persone” ci aiuta a recuperare la dimensione dei diritti.» (Paolo Meroni, associazione “Itaca” Milano ONLUS).                                                                                      

«Noi riteniamo che l’inclusione sociale debba partire da un diritto delle persone all’abitare nelle proprie case. Nel 2013 l’Asl di Cagliari decide di sospendere l’esperienza dell’abitare assistito e mette a bando la realizzazione e quindi ritorna con urgenza il diritto dell’abitare, queste persone si trovano nuovamente senza un luogo dove stare dopo che faticosamente si erano riappropriate della loro vita nonostante i tentativi di scongiurare questo trasferimento, nel 2015 viene chiuso l’abitare assistito di Cagliari e così le persone tornano nuovamente a essere trasferite in istituzioni, in case di riposo, in comunità terapeutiche, in strutture socio-assistenziali, nonostante una ferma protesta dei familiari. 

La comunità deve essere intesa, o almeno così noi la intendiamo, soltanto come un primo passaggio verso un percorso di autonomia, quindi è per questo che anni dopo si realizza la comunità “Franca Ongaro Basaglia” è una piccola comunità che accoglie 8 persone. 

Molte persone che nella nostra comunità hanno compiuto un percorso positivo raggiungendo una stabilizzazione clinica che permetterebbe un superamento del percorso comunitario si trovano invece a sostare ulteriormente nella comunità in un tempo quasi indefinito, incerto e questo perché i servizi territoriali non sono capaci di costruire un progetto che sia rispondente ai bisogni della persona e che sia sostenibile finanziariamente e che possa favorire un passaggio dalla residenzialità a forme più leggere e autonome dell’abitare , difficilmente si concretizza la possibilità di sperimentarsi in forme di abitare condiviso in quanto non solo è difficile reperire le abitazioni ma è difficile anche reperire le risorse economiche da destinare all’abitazione.» (Simona Michieli, comunità di Cagliari). 

«In Abruzzo purtroppo sono numerosi gli invii alle comunità terapeutiche con progetto poco o per niente orientati alle recovery, sono tante le persone giovani con patologie severe ad alta priorità nei confronti delle quali il centro di salute mentale non riesce a produrre progetti adeguati e spesso si limitano al tentativo di una stabilizzazione farmacologica per poi ricorrere a ricoveri d’urgenza in SPDC, ci sono alcuni tentativi di lavorare anche in una direzione diversa. Troppo viene però viene demandato ad un preciso metodo di cura prettamente scientifico e forse è questa la problematica e viene dato poco spazio alla parte psicologica per come stanno le cose al momento. Per quanto riguarda la residenzialità la meta dovrebbe essere l’autonomia però purtroppo tutto questo resta una dichiarazione di intenti e non viene pienamente attuato, ci sono pochi appartamenti supportati e quelli esistenti sono a completo carico di utenti e familiari. La grande parte della residenzialità regionale è imperniata su lunghe permanenze in comunità terapeutiche che si rivela una risposta inadeguata e reclusiva che sgrava i servizi territoriali dalla necessità di impegno nei progetti individualizzati per i 6 mesi della permanenza in struttura.  Il CSM ha poco personale socio-sanitario e non risponde completamente alle esigenze, c’è una scarsità di risorse che si coniuga con una cultura di pratiche troppo ambulatoriali e di tempi di attesa troppo lunghi soprattutto per situazioni di emergenza e criticità. A causa del Covid19 faticano ad andare avanti i progetti di assistenza a inclusione sociale. Mentre nella nostra associazione abbiamo avviato un progetto di abitazioni solidali che offre ospitalità a 7 persone, stiamo lavorando molto bene con il SERT ma a fatica col CSM che forse non comprende appieno il nostro intervento. Con l’arrivo del Covid ci siamo dovuti rimodulare, abbiamo diminuito gli appartamenti ma nel frattempo portiamo avanti una radio “giovane”, abbiamo un laboratorio di arte e abbiamo in mente di vendere i nostri prodotti.  

Stiamo cercando di lavorare con gli appartamenti ma anche col territorio.» (Emanuele Sirolli “Associazione 180 amici” – L’Aquila). 

«La nostra cooperativa sta cercando di stare sul mercato liberamente senza avere finanziamenti, noi produciamo prodotti attraverso l’agricoltura e li commercializziamo e così tutti i protagonisti della cooperativa si costituiscono parte attiva perché se c’è il lavoro la cooperativa continua a esistere. Per noi il gruppo appartamento non è un punto di arrivo ma un punto di partenza. Noi ci muoviamo verso l’autonomia personale. Il diritto all’abitare è strettamente collegato al lavoro e al diritto alla piena cittadinanza.» (Andrea Nicosia e Ignazio Manenti, progetto TERRA NOSTRA, Caltagirone). 

«La co-progettualità è la base su cui si riesce a entrare in contatto con una comunità e quindi a trasmettere un messaggio a chi vive quello specifico percorso. L’altro aspetto che sottolineerei è il bisogno di cercare risorse non solo risorse istituzionali di tipo economico ma risorse umane, professionali e soprattutto risorse in termini logistici quindi degli spazi e dei luoghi dentro i quali sia possibile immaginare una progettualità alternative. Dobbiamo definire al meglio il concetto di territorio perché le idee sono troppo diverse. La libertà è terapeutica perché avere un proprio spazio, una propria casa, un proprio luogo di vita, significa essere persone libere e significa non cadere nel circuito istituzionalizzante che produce sintomi, produce malessere quindi paradossalmente noi vediamo l’abitare in autonomia come il risultato di un processo di cura io invece credo che l’abitare in autonomia sia esso stesso la cura. […]  

Noi pensiamo che per le persone che vengono definite croniche la soluzione non è la casa di riposo bensì una casa vera e propria e ci siamo attivati per dare ai nostri utenti degli appartamenti che altrimenti sarebbero finiti in case di riposo.» (Stefano D’Offizi, medico psichiatra, Donatella Lah, operatrice sociale, Gorizia). 

Infine, riportiamo l’esperienza degli appartamenti supportati gestiti dall’associazione Solaris di Roma, raccontati da Antonella Cammarota, che ha sottolineato come «gli appartamenti sono delle persone che vi abitano, loro scelgono dove abitare e con chi. […] Il nostro funziona come piccolo modello, ci occupiamo di circa 30 utenti. La forza del nostro modello è che abbiamo una rete forte di associazioni e molti volontari». E ricorda quanto sia importante lavorare per creare sinergia tra familiari, utenti, Municipi e ASL. 

Diversamente, come racconta il sig. Ferrante di ASARP, il Dipartimento di Salute Mentale, e nello specifico lo psichiatra, «può essere sostituito da un distributore di psicofarmaci nei CSM». La mancanza di rete porta la persona con disagio a essere vista solo in quantomalata, con la conseguenza di costruire percorsi in cui manca una reale volontà di integrazione e inclusione con rapporti distaccati tra operatori e utenti e laboratori e corsi di formazione che divengono fini a se stessi, con il paradosso che c’è una maggiore attenzione alla pulizia degli spazi che alla costruzione di relazioni umane significative. 

Finiamo questa lunga carrellata di testimonianze, esperienze e punti di vista con le parole di Stefano Cecconi:  

«Diritto alla vita indipendente, individuazione di strumenti per assicurare il diritto alla vita indipendente e risposte di salute. La nostra è una proposta di cambiamento forte che va esplicitata in vista della conferenza nazionale della salute mentale ma anche del Recovery Plan. Il 18 marzo c’è un appuntamento importante che tratta della non auto-sufficienza e che riguarda la vita degli anziani e delle persone con disabilità.  

La cosa più importante è sintetizzare le idee e presentare una risposta forte collocata nell’agenda politica di oggi. Barbieri ricorda che siamo in un terreno di conflitto tra i bisogni e i diritti delle persone e gli interessi economici. Questo è il terreno dove dobbiamo continuare a mobilitarci». 

 

Maria Anna Catera,  Edgardo Reali,  Andrea Terracciano