Nell’anno del Covid-19 ogni altra emergenza sembra essere passata in secondo piano. Ma con l’HIV non bisogna mai abbassare la guardia. Lo hanno ricordato a gran voce il 1° dicembre scorso, durante la Giornata mondiale contro l’AIDS, le migliaia di persone che ogni anno lottano contro il virus: singoli, ma anche associazioni, ONG e cooperative – come Parsec, Il Cammino, Nautilus, solo per citarne alcune – impegnate da tempo in progetti di contrasto al virus e lotta allo stigma, per il diritto all’informazione, alla prevenzione e per una sessualità libera e consapevole.
«C’è ancora tanta confusione tra HIV e AIDS – ci spiega Paola Vannutelli, responsabile del progetto HaIVoglia per la Parsec e specialista in psicologia delle dipendenze – per questo bisogna fare chiarezza oggi più che mai. La disinformazione, infatti, alimenta lo stigma e il pregiudizio».
Insomma: più se ne sa meglio è, ci ricorda la dottoressa che aggiunge in maniera chiara «l’HIV è il virus dell’immunodeficienza umana che può essere trasmesso da una persona sieropositiva a un’altra che non lo è. L’AIDS è lo stadio terminale della malattia. Non vanno confusi. Il virus, entrato nel corpo umano, silenziosamente, con gli anni distrugge il sistema immunitario e dopo molto tempo le persone cominciano a soffrire di molte patologie perché non hanno più difese. Oggi fortunatamente si parla più di HIV che di AIDS, perché stanno diminuendo i casi di persone che si ammalano. Questo soprattutto in Occidente».
Avere l’HIV non è più una condanna a morte, insomma, come accadeva 30 anni fa. «Una persona sieropositiva che si cura e fa la giusta terapia antiretrovirale, inoltre – ci conforta la responsabile della Parsec – non è infettiva per gli altri. Lo dice la comunità scientifica intera e questo è rivoluzionario nella vita delle persone affette dal virus che, in tal modo, possono avere un’attività sessuale libera con il proprio partner, senza rischi. Saperlo serve a combattere lo stigma verso chi ne è affetto».
La prima battaglia da fare è quella di una giusta informazione, quindi, e della diffusione dell’uso del preservativo, soprattutto tra le giovani generazioni. «Il progetto HaIVoglia fa parte del programma HIV-Education che regala profilattici da anni, con i suoi banchetti, perché un principio cardine per tutti è rimanere sani, o curarsi e guarire nel caso ci si ammali. Ma oltre a questo diamo anche informazioni corrette su due metodi di prevenzione come la Prep e la Pep, di cui si parla poco in Italia. Se una persona, infatti, per qualche motivo non può utilizzare il preservativo, può prendere la Prep, cioè un farmaco che cura le persone sieropositive che, assunto per tutto il mese, protegge dal rischio di infezione nel caso si entri in contatto con il virus». Ma non finiscono qui le buone notizie. Questo farmaco può essere usato On Demand, cioè può essere preso solo per i giorni in cui si hanno rapporti a rischio. «Esiste da molto tempo anche la Pep – specifica Vannutelli – cioè una terapia post-esposizione. Nel caso si abbia avuto un rapporto a rischio, per esempio a causa della rottura del preservativo, ci si può rivolgere a un reparto ospedaliero di malattie infettive, dove verrà prescritta una terapia di alcuni mesi che scongiurerà la possibilità di una sieroconversione, cioè di contrarre il virus». Anche se in questo periodo non è semplice avvicinarsi a un ospedale e, ancora meno, a un reparto di malattie infettive, bisogna essere informati e agire di conseguenza.
Nel mondo, infatti, quasi 38 milioni di persone convivono con l’HIV e ogni anno vengono fatte quasi 2 milioni di nuove diagnosi. «L’infezione», avverte la Società italiana di malattie infettive e tropicali, continua a rappresentare «una questione di salute pubblica a livello globale».
Il virus inoltre non riguarda solo gli adulti, ma colpisce anche i bambini. «Tra aprile e maggio, in coincidenza dei lockdown parziali o totali, le cure pediatriche contro l’HIV e i test della carica virale per i bambini in alcuni paesi sono diminuiti tra il 50 e il 70 per cento, e gli inizi di nuove cure sono diminuiti del 25-50 per cento», ci attesta l’ultimo rapporto dell’UNICEF. Abbassare la guardia non è permesso nemmeno in tempo di Covid-19, sopratutto se si considera che da due anni i nuovi casi di HIV sono in decremento ma che, per leggere correttamente i dati sulle sieroconversioni, questi vanno incrociati con il numero dei test effettuati sulla popolazione. Insomma: se faccio meno test non posso gioire del minor numero di infetti, mentre se faccio lo stesso numero di test per più anni, su un determinato campione di popolazione, posso avere un’idea precisa dell’andamento del virus.
La conoscenza è l’arma più forte. Il ritardo più grave nella lotta alla malattia è stato determinato dal pregiudizio. Un tempo – non troppo lontano a dire il vero – si pensava che l’HIV riguardasse solo gli omosessuali e i tossicodipendenti. Sono anni però che i dati ci dimostrano che il maggior numero di nuove infezioni avviene tramite rapporti sessuali non protetti e la trasmissione tra persone eterosessuali ha superato di lunga quella tra persone dello stesso sesso. «L’HIV non è la malattia dei gay o dei tossici», gridano le cooperative come la Parsec. E bisogna ribadirlo a gran voce se si vogliono ottenere dei risultati duraturi.
«Diffondere i dati è necessario. – sostiene Vannutelli – Il Lazio e la Lombardia sono le regioni italiane con il maggior numero di persone affette e i giovani sono la fascia di popolazione più colpita». A causa dell’emergenza Covid, inoltre, c’è stato un tuffo nel passato per quanto riguarda la cura e la prevenzione di tante altre malattie croniche. «Molte persone, sieropositive e non, si sono viste gli ospedali blindati e cancellate le visite di routine programmate da tempo, nonostante la solidarietà di molti medici. – aggiunge la psicologa – C’è stato un momento di gran dolore e abbandono, dopo molti anni ci siamo trovati a urlare che nessuno deve essere lasciato solo e che nessuna malattia deve essere sacrificata per curarne un’altra.
Fare il test è fondamentale – conclude Vannutelli – anche in questo contesto drammatico. Essere positivo al virus non preclude la possibilità di una vita lunga e serena, se ci si cura. Inoltre, altra buona notizia, avere l’HIV non espone a un rischio maggiore di contrarre il Covid-19 rispetto alle persone non affette».
E, se di pregiudizio si parla, nel mese della lotta all’AIDS, va infine ricordato che la saliva non è un vettore di trasmissione dell’HIV come per il Coronavirus. «Grande è la confusione sotto il cielo», recitava Mao Zedong, ma fare chiarezza sull’HIV, oggi, non solo è possibile, ma assolutamente necessario.
Sara Picardo