“Slegalo! Usi e abusi della psichiatria” di Alice Banfi, Giovanna Del Giudice, Pier Aldo Rovatti

La fragilità, la malattia, la disuguaglianza, la follia è parte dell’esistenza di ognuno di noi

(G. Del Giudice, p. 55)

“Slegalo! Usi e abusi della psichiatria”

Il libro vuole essere un contributo alla campagna “E tu slegalo subito” (www.slegalosubito.com) promossa dal forum nazionale di salute mentale per sensibilizzare sui temi della salute mentale e per denunciare tutte quelle situazioni – ancora oggi esistenti – dove la psichiatria al posto di elemento di sostegno e cura diviene potere attraverso cui si viola l’altro: “essere legati da qualcuno a letto è un esperienza orribile; è una sorta di stupro.”                                                                                                                                                      Attraverso tre interviste si getta uno sguardo sulla situazione attuale degli ospedali psichiatrici e le sue istituzioni limitrofe, si denuncia come oggi nel XXI secolo il potere medico psichiatrico, in alcuni luoghi, diviene sinonimo di violenza, desogettivazione e annientamento.

Con contenzione meccanica si intende l’uso di fascette, lacci, camice, manette ma anche lenzuola con l’obiettivo formale di curare con il risultato finale di violentare e annientare. Questo metodo era l’unico utilizzato nei manicomi, purtroppo nonostante la rivoluzione della legge 180, che quest’anno festeggia i suoi ’40 anni, ancora oggi usato in ambito psichiatrico negli SPDC ma anche in molti altri contesti che dovrebbero essere riabilitativi e in realtà sono solo punitivi: i CIE e le carceri come alcuni reparti psichiatrici o alcune REMS e ancora alcune residenze per anziani che rappresentano oggi i nuovi manicomi. La contenzione meccanica è ritenuta una pratica illegittima (Vedi http://180gradi.org/2015/07/14/contenzione-meccanica/) che viola i diritti della persona ma è un fenomeno che oggi “ha dimensioni enormi e necessita di una consapevolezza collettiva” (G. del Giudice p. 53).

Alice Banfi nella parte intitolata “Torture” si racconta, ci racconta ancora una volta – ricordiamo le sue crude narrazioni in “Tanto scappo lo stesso” e “Sottovuoto. Romanzo psichiatrico” – cosa accade in quei luoghi che dovrebbero essere deputati alla cura ma che invece divengono luoghi di tortura, “si contiene per controllare e per punire, mai per curare” (Alice Banfi, p. 26).  Luoghi che dovrebbero accogliere le persone in uno stato di sofferenza acuta che necessiterebbero di un luogo protetto, un luogo che le accoglie in quanto persone nella loro interezza, un luogo che si prenda cura ma che invece spesso, troppo spesso si rivela l’ultimo annientamento.

Anche nel secondo capitolo “Non più persone” di Giovanna Del Giudice (Vedi: http://180gradi.org/?s=giovanna+del+giudice) ritorna la parola tortura, tortura come quella pratica che per molto tempo si fece trattamento per le persone con disturbo mentale. Anche qui si denuncia come ancora oggi le persone che vivono un forte disagio mentale siano vittime di violazione dei diritti umani e forti discriminazioni. Dopo la rivoluzione culturale portata avanti dal movimento legato a Basaglia nulla è rimasto immutato “è stato messo fine al grande internamento manicomiale, erano circa 100000 le persone internate negli ospedali psichiatrici alla fine degli anni settanta”. Questa grande rivoluzione non ha significato la scomparsa di queste pratiche: all’ingresso nel reparto psichiatrico o negli SPDC l’altro non viene riconosciuto come tale ma inserito in un percorso indifferenziato.

Anche nell’ultima parte ritorna, come un filo rosso, la tortura qui in “Soggetti in fuga” Pier Aldo Rovatti introduce il concetto “soggetto restituito”, “soggetto in fuga” non più contenibile, un soggetto che non è più possibile normalizzare ma al contrario è un soggetto “politicamente ricco”. Questo processo si può dare in molteplici forme in quanto “la liberazione non sopporta modelli”. In ogni caso la nostra società obbliga a rientrare in categorie predefinite e normalizzanti, si oppone a questi movimenti di ri-soggettivazione e nel caso dei “matti” lo fa attraverso la contenzione, nel caso delle persone non eterosessuali o che non si definiscono all’interno del binarismo di genere lo fa medicalizzando e con le politiche contro il gender, nel caso delle persone migranti rinchiudendole nei CIE, e si potrebbe andare avanti ancora lungamente.

Come combattere la tortura, la contenzione, l’obbligo ad aderire ad una normalità inesistente? I tre autori propongono vie di uscita: ricorre la necessità di un cambiamento culturale forte, una maggiore formazione e la diffusione di servizi sul territorio che siano vicini alla vita quotidiana delle persone, necessaria l’empatia, il sentire e sentirsi nell’altro e con l’altro; necessaria una formazione ad hoc per tutti coloro che lavorano con queste persone e quindi non solo per psichiatri e psicologi ma anche per tutte quelle figure che trascorrono molte ore della loro giornata lavorativa a contatto con questi utenti: infermieri e OS.

Riconoscere le differenze come valore aggiunto e non da annientare in una spasmodica ricerca della normalità, riconoscere le differenze per progettare percorsi di presa in carico individualizzati che rispettino le inclinazioni e le volontà dell’altro/a, mettere a valore le buone pratiche che quotidianamente in Italia e nel mondo si sviluppano e crescono.

È necessario “sospendere il giudizio” (Basaglia) prima ancora di sentenziare diagnosi o terapie normalizzanti (http://180gradi.org/2018/01/29/le-riflessioni-di-franco-basaglia-sulla-follia-sul-senso-della-cura-e-delle-istituzioni/), riconoscere l’altro significa co-costruire insieme un processo che non deve avere come traguardo una presunta normalità ma un sentirsi, un poter stare nel contesto e fuori dal contesto delle istituzioni psichiatriche. A quarant’anni dalla legge 180 molto si è fatto ma molto ancora si deve fare, probabilmente partendo proprio da quelle esperienze e buone pratiche che esistono ma che non rispondendo alla logica del capitalismo-normalizzatore faticano ad emergere.

 

Marta Cotta Ramosimo