Cosa sta insegnando la pandemia a noi terapeuti?

La pandemia è un evento di portata planetaria, perché riguarda noi tutti abitanti di questo pianeta. Spesso ci siamo sentiti dire che è una guerra da vincere. Preferisco rappresentarla come un’occasione per cambiare noi, e il nostro modo di rapportarci al mondo naturale e sociale che abitiamo. Mi piace pensare che questa è l’occasione per costruire a partire dal nostro qui e ora un futuro più a misura dell’essere umano per praticare “la cura del vivere”. 

L’inedita situazione della pandemia di Covid-19, sta imponendo a tutti noi cambiamenti nel modo di vivere, di relazionarci, e anche di prenderci cura dei nostri pazienti. Di certo non eravamo pronti a far fronte a tale evento inedito, mentre contemporaneamente siamo stati chiamati, in modo più o meno consapevole, a far leva su tutta la nostra esperienza personale, teorica e clinica, e a porci anche nuove riflessioni nell’ambito della cura del paziente, nella relazione terapeutica, e non da ultimo, della psicopatologia che sottende ogni nostro intervento psicoterapeutico. 

I cambiamenti di vita, soprattutto nella fase del primo confinamento, sono stati caratterizzati dalla paura e dello smarrimento che hanno riguardato tutti, noi terapeuti e pazienti compresi.

In quella fase, abbiamo vissuto, rinchiusi nelle nostre abitazioni braccati dalla impalpabile eventualità del contagio, della morte, nel silenzio assordante delle nostre città, rotto solo dalle sirene delle ambulanze, dall’impossibilità di dire addio ai nostri cari, nella impossibilità di stare loro accanto. Tanti anziani morti senza potercisi congedare e dire addio, tanti i processi di lutto resi atroci dalla distanza e dall’impossibilità del contatto. Nelle fasi successive di semi-confinamento la precarietà ha regnato sovrana, con continue, parziali riaperture e chiusure, con timori e incertezze. Poi, a fine autunno, una nuova fase di confinamento per l’aumento dei contagi, una fase in cui la paura è stata meno intensa, ma sicuramente l’isolamento ha assunto esiti più depressivi, con più senso di impotenza, scoraggiamento, per non parlare degli ulteriori timori di perdita del lavoro e di una crisi economica dal profilo ancora incerto. Abbiamo dovuto ammortizzare i cambiamenti di orizzonte delle nostre progettualità di vita e del senso del futuro. Nella fase attuale stiamo cercando di imparare a convivere con il virus, ma il senso di fragilità e il vissuto di incertezza resta significativo, anche per le ricadute economiche, e non solo della pandemia. La pandemia ci ha segnato. Ci ha ferito. Ci ha messo in discussione tante certezze fondamentali della nostra società occidentale. 

La pandemia ci sta dimostrando, senza ombra di dubbio, non solo in campo psicoterapico, come una relazione di cura autentica si orienti in un campo ipotetico e congetturale nel quale si pongono sempre nuove domande; dove, dal punto di partenza, l’incontro con l’Altro, occorre accettare consapevolmente che si procede in una esplorazione comune anche dell’incerto e dell’ignoto, riconoscendoci tutti integralmente parte di esso. La pandemia ha colpito tutti, nessuno escluso. E in questa inclusività vi sono anche i terapeuti. La coscienza di essere partecipi e immersi nel contesto in cui si agisce non può che condurre a un modo di guardare alla cura delle persone che ci richiama all’essere consapevoli che non può mai darsi una condizione di estraneità, e di immunità, rispetto al campo in cui si opera, che non si può essere, quindi, oggettivi e impartecipi e anche che a chiunque, anche al curatore, può capitare di essere malato. Questo è in realtà un punto di forza e non di debolezza, poiché è dalla condizione dell’esser contagiato, malato, fragile che può derivare al terapeuta, oltre all’indispensabile senso del proprio limite, un sapere incarnato e sofferto che può dar vita a nuove possibilità di cura. 

Come terapeuti sappiamo che pur portando il proprio bagaglio di sofferenze il paziente non cessa di essere persona con la sua storia, la sua rete di relazioni, il suo modo unico di vivere le emozioni mentre cerca disperatamente di trovarne un senso, di ritrovarne una coerenza. Questa perdita di senso della propria sofferenza si presenta soprattutto nei momenti di forte discontinuità, causata da eventi inattesi e imprevisti che tanto mettono a dura prova il senso di costanza del proprio essere . Intervenire nella presa in carico significa essere saldi nella legittimazione e nell’accoglienza rispettosa del paziente, riconoscendo che nella condizione di disagio e sofferenza, non si cessa di essere persona, nell’integrità della propria dignità, del proprio progetto di vita e delle relazioni che caratterizzano l’esistenza. Ciò significa come terapeuti non arrogarsi il diritto, sulla base di un presunto punto di vista “obiettivo” o “scientifico”, di saperne di più del paziente e di decidere al posto suo quale sia il suo bene.

La pandemia rappresenta, in ultima analisi, un’occasione per riflettere e vigilare sulla nostra posizione di curatori. Il rischio subdolo è quello di farci collocare in una posizione dove lavoriamo meccanicamente in funzione della domanda sociale, normativa, oggettiva. Sempre più persone si rivolgono a noi accusando di essere afflitti da uno o più sintomi e ci chiedono di disfarsene velocemente, con richieste urgenti e incalzanti. L’aumento di domande di questo tipo si accompagna a interruzioni o andamenti in cui le sedute vengono disdette, dimenticate, rinviate; situazioni in cui il tema della strutturazione di un legame e di un impegno sono spesso ostacoli e non opportunità di miglioramento. In questo senso, il rischio è quello di colludere con richieste di delega, de-responsabilizzazione e dipendenza. Esistono, soprattutto oggi, sofferenze molto diverse tra loro. Alcune hanno un carattere più esistenziale, altre sono l’incarnazione di contesti di emarginazione sociale e/o culturale. Migliorare la nostra capacità di intervenire significa riconoscere il disagio esistenziale da uno scompenso vero e proprio; sapersi orientare in interventi che non inquadrino nella psicopatologia tutto l’emergere del disagio umano, interventi che sappiano riconoscere quei segni prodromici di gravità psicopatologica, distinguendoli da forme di disagio assolutamente fisiologiche, come quelle emerse durante la pandemia. 

 

Fabio Martines – Psicologi in Ascolto 

 

Foto di Sozavimost da Pixabay CC-License