Il vocabolario Treccani indica per il termine speciale uno dei seguenti significati: Non comune, fuori dall’ordinario, di genere particolare. In termini psichici l’essere speciali o sentirsi speciali per qualcuno, come per i propri caregivers ma anche nelle relazioni di affetto instauratesi successivamente, ha a che fare con la relazione con l’altro, e la percezione che il rapporto con l’altro (significativo) sia unico e privilegiato. Ciò si verifica quando nella relazione è riconosciuta la propria unicità. La relazione terapeutica con questa paziente è iniziata quando uno dei suoi sintomi, il self- cutting, ha raggiunto l’apice, “la ferita era molto profonda” tanto che i genitori avendo percepito la portata del suo malessere, hanno accettato che la figlia diciassettenne iniziasse un percorso terapeutico individuale parallelamente a quello familiare.
Durante i primi colloqui mi ha colpita il suo modo di raccontare, in qualche modo anestetizzato e senza un colore emotivo, simile al suo abbigliamento, esclusivamente nero. Quello che spicca è il marrone degli occhi definiti dal nero di una matita che dall’alto erano nascosti da un ciuffo e dal basso erano delimitati da una mascherina nera. I suoi occhi: a sprazzi si illuminavano. I suoi racconti durante i nostri colloqui sono sempre molto filtrati come le calze a rete che indossa volontariamente lise o strappate, perché come lei stessa afferma, sono un’espressione di sé:“ora mi sento libera di esprimermi, vestendomi così”.
I racconti, come le calze, formano una fitta maglia attraverso cui filtrare tutte le informazioni, soprattutto quelle che riguardano il suo sentire. Ed è proprio il sentire che progressivamente è diventato il fulcro del nostro incontro settimanale. Per lei il sentire, in alcuni momenti, è delegato all’uso delle sostanze stupefacenti, soprattutto cannabinoidi, in altri è caratterizzato da esperienze dissociative e da vissuti angoscianti. Un sentire che in diverse occasioni viene messo a tacere, sostituito da un vagare senza scopo e senza meta, in una città dormiente in attesa del nuovo giorno.
Nel libro, Cosa serve ai nostri ragazzi, Utet 2020, leggiamo: “I disagi degli adolescenti odierni trovano espressione, prevalentemente, attraverso forme di attacco a sé e alla propria corporeità. Segue: Le diverse modalità […] ci parlano di quanto per i ragazzi e le ragazze sia molto difficile essere: sufficientemente belli, popolari e di successo, vittime di ideali disillusi, alle prese con la propria percezione di inadeguatezza corporea, personale, relazionale, prestativa. Nessuna trasgressione, zero opposizione, ragazzi pacifici che non attaccano l’adulto ma piuttosto se stessi”.
Nel corso dei colloqui con lei spesso viene fuori come il senso di inadeguatezza trovi, in qualche modo, un suo acquietamento per mezzo della sostanza stupefacente: “non riesco a sentirmi a mio agio, non so mai quello che devo dire e se sia abbastanza interessante. Quando mi trovo in un gruppo a chiacchierare, spesso fumiamo o beviamo ed io mi sento bene, sto bene, perché non mi preoccupo di quello che devo dire”. La sostanza stupefacente e lo stato alterato che ne consegue, rendono la relazione meno richiedente da un punto di vista della performance, aiutandola, in questo caso, a stare con gli altri in un contesto diverso da quello della scuola, perché “non è necessario essere del gruppo dei popolari per parlare con qualcuno, per contare qualcosa ed essere invitata ad uscire”.
Dai suoi racconti emerge come il fumare le canne sia un aiuto, uno strumento che le permette di fare delle esperienze che sgombrano la mente dai soliti pensieri e dal dolore. L’effetto sedativo delle canne è di breve durata, e spesso aumenta il vissuto di inadeguatezza e tende a farle svalutare ulteriormente il senso di sé. È un sentirsi bene che ha un limite ed è tutt’altro che benefico: “Dopo mi sento peggio, mi viene l’ansia e non riesco a controllarla, se non fumando ancora”. È come se si attivasse una spirale dalla quale si può uscire solo ricominciando a fumare hashish o marijuana, ricercando di nuovo quella sensazione di benessere che non sempre viene ritrovata. Spesso ciò che sperimenta è una sofferenza mentale che diventa anche fisica. L’angoscia invade e riempie tutto lo spazio sia interno che esterno. Nel corso dei nostri incontri il mio controtransfert corrispondente è un sentimento di rabbia, che mi porta a domandarmi: come sia possibile che nessuno veda niente? Che cosa non sto riuscendo a vedere io? Ma non solo, spesso sento anche una sensazione di profonda solitudine, che la mia paziente esprime nella frase: “perché dovrei mangiare se non c’è nessuno che sta lì con me”.
Nel libro Cosa serve ai nostri ragazzi, l’autore scrive: “Il sintomo svolge, in particolare modo in adolescenza una duplice funzione. Da un lato segnala, manifesta il disagio, comunica il dolore, lo stato di forte sofferenza individuale e per questo l’adulto è chiamato a intervenire, non banalizzando mai alcun segnale d’aiuto proveniente dai ragazzi e dalle ragazze. Qualsiasi agito dell’adolescente è una manifestazione sintomatica da prendere molto sul serio […]. Dall’altra parte il sintomo rappresenta la propria personalissima modalità di autosomministrarsi una prima forma di cura, un’automedicazione urgente, messa in atto per mitigare un dolore mentale insopportabile, che rischia di portarti alla follia. L’inconscio umano spinge a fare di tutto pur di non perdere il senno, pur di non farti impazzire e non farti cedere alla costruzione di una realtà parallela.
Nel corso dei nostri colloqui la stanza di terapia diventa sia il luogo in cui la paziente riesce a portare i suoi vissuti di angoscia ed inadeguatezza ma anche quelle parti di sé che lei definisce sporche e poco curate e che nessuno, a suo avviso, in casa e a scuola riesce a vedere: “è una settimana che metto la stessa maglietta e che non mi lavo ma nessuno se ne è accorto, nessuno mi ha chiesto niente”. Un non vedere che è vissuto in modo ambivalente e che se da una parte si può esprimere nel “io credo che i miei genitori sappiano che sto male, ma non me lo dicono perché non vogliono che io mi preoccupi perché loro lo sono”, dall’altra ci mostra la rabbia nel poter dire: “se almeno qualcuno vedesse io potrei non fare finta che vada tutto bene”.
Nel libro L’età tradita, Raffaello Cortina Editore 2021, leggiamo: […] se non simbolizza, se non riesce a mettere in parole conflitti evolutivi che lo animano, l’adolescente agisce. Impedirglielo è impossibile, si può però provare a capire e a interpretare il gesto e aiutare a tradurlo in parole che rendano progressivamente l’agito meno urgente, un’azione non più necessaria a garantire la sopravvivenza psichica del nostro giovane paziente.
Cristina Giardullo di Psicologi in Ascolto
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