La testimonianza di un operatore anonimo, tra paura e incredulità
«Sono un operatore sanitario che lavora in un Ser.D., servizio di recupero per dipendenti patologici. L’impatto della pandemia è arrivato a marzo, come dappertutto. La strategia utilizzata è stata da subito quella di normare gli ingressi in modo da non sovraffollare il servizio in un momento storico di rischio contagio. Le misure adottate sono state quelle di contingentare gli ingressi limitando l’entrata ai pazienti e facendo aspettare fuori famigliari e accompagnatori non essenziali al trattamento. Il nostro servizio ha in carico circa 800 pazienti che affluiscono, più o meno settimanalmente, al Ser.D. Tra gli operatori ha iniziato a serpeggiare da subito, in totale sintonia con le notizie che trapelavano dai telegiornali, un misto di incredulità e paura. Incredulità per un destino ritenuto sino a poco prima inavverabile – non solo in tutta Italia, ma nel mondo – e paura per i contagi in aumento, paura per la propria salute e per quella dei propri cari. Ci si incrociava con diffidenza nei corridoi, chi con la mascherina e chi no, guardandoci a vicenda non più come colleghi e sodali in un lavoro spesso complicato e gravoso, bensì come fonti potenziali di infezione, di pericolo.
Alcuni operatori hanno preso permessi per stare a casa, altri, che non ne avevano o non ritenevano indicato farlo, hanno continuato a venire al servizio ogni giorno. Posso però dire, con un pizzico di orgoglio, che il servizio – come tutti gli altri servizi sanitari nel territorio – non è stato mai chiuso; nonostante la paura, nonostante il terrore che dilagava nel mese di marzo 2020 e che costringeva i più alla reclusione forzata a casa. Ammetto con estrema sincerità che venire a lavorare in quel periodo è stato davvero difficile. Ogni mattina lasciare mia moglie e mia figlia piccola a casa è stato complicato; per la paura di contagiarmi, di contagiarli, di morire, di essere vittima di una patologia di cui si conosce poco o niente. Con il continuo della pandemia sono arrivate l’insoddisfazione, lo stress prolungato, la fatica a respirare e parlare dentro le mascherine. La stanchezza di sfiorarsi e non toccarci. I nostri pazienti, invece, mentre l’Italia intera era chiusa in casa, uscivano per recarsi al servizio (e non solo) sempre e senza particolari problemi. Perché? A mio modo di vedere principalmente per quattro motivi.
- Tranne per i giocatori d’azzardo – a cui durante il lockdown veniva proibito il gioco, essendo chiuse tutte le piattaforme on-line e le ricevitorie in generale – i pazienti tossicodipendenti hanno sempre avuto il bisogno di procacciarsi le sostanze o l’alcol. Quindi uscivano lo stesso e si dirigevano nelle più famose piazze di spaccio, Tor Bella Monaca e San Basilio, a procurarsi la sostanza di cui necessitavano. Piazze di spaccio, peraltro, mai chiuse.
- La struttura di personalità del dipendente da cocaina ed eroina è (a differenza di quella dell’alcolista) tendenzialmente incline alla devianza. Il ragionamento è il seguente: le regole dei Dpcm esistono ma possono essere infrante, quindi esco.
- La cosa che fa paura in questo periodo è legata principalmente al concetto di morte, di perdita e di colpa, argomenti con cui il tossicodipendente è in stretto contatto da tempo.
- Le sostanze spesso vengono utilizzate per lenire il dolore interiore che queste persone provano. Le sostanze hanno lo scopo di anestetizzare e far sentire “meno” le emozioni e i dolori. Quindi le sostanze, per questi pazienti, hanno sicuramente alleviato lo stato di paura e stress presente in questo periodo.
Adesso, dopo più di un anno di pandemia, tutto sta tornando alla normalità. Una normalità in cui i pazienti affluiscono numerosi e mascherati e noi, anche noi mascherati, ci sfioriamo per i corridoi, ci parliamo a distanza, non ci tocchiamo, fumiamo lontani.
Tanti banditi stanchi senza la fantasia di rubare nulla.»
Operatore anonimo