Evitare che il distanziamento diventi isolamento
Durante il primo lockdown ho sperimentato cosa significasse fare il mio lavoro secondo la modalità online. Prima di allora ero scettica nei confronti della terapia e dei corsi di formazione online. Sperimentandomi in prima persona ho rivisto la mia posizione a tal proposito. Ho notato la differenza tra seguire online un paziente che seguivo già da tempo, un altro che avevo visto poche volte e un paziente visto direttamente la prima volta online. Inizialmente, ho trovato faticoso utilizzare Skype o altri canali, proprio perché ho sentito di dovermi concentrare maggiormente e avere tutti i sensi “attivati” al massimo per compensare, per così dire, l’assenza della presenza fisica.
Dalla fatica iniziale mi sono poi trovata maggiormente a mio agio con questa modalità. L’entrare nelle case dei pazienti, far entrare i pazienti nella propria (quando non era possibile fare le sedute dallo studio) ha costituito un elemento di ridefinizione del setting.
Nell’arco di un mese e mezzo circa ho ripreso a vedere quasi la totalità dei pazienti in presenza, questo a sottolineare come proprio la presenza fisica, la condivisione di uno spazio comune, il contatto anche solo dello sguardo, fosse diventato “paradossalmente” ancora più importante.
Nonostante la fatica causata dall’applicazione delle norme (distanza di due metri, uso della mascherina, igienizzazione frequente delle mani e degli ambienti, finestre aperte) quasi tutte le persone preferivano recarsi a studio. Inizialmente non è stato né semplice, né automatico lavorare in queste condizioni. Ero sintonizzata maggiormente su ciò che mancava: vicinanza fisica, contatto, possibilità di vedere il volto delle persone in toto. Infatti, a volte, pensavo che in fondo la modalità online, in termini economici di energie, aveva dei vantaggi, almeno potevi vedere l’intero volto delle persone da uno schermo di fronte a te. Tali perplessità sono scemate in breve tempo, ho avuto un’ulteriore conferma della capacità di adattamento dell’essere umano e della sua resilienza. Sentire, percepire, guardare, essere due corpi nella stessa stanza era importante e lo spazio terapeutico sembrava come qualcosa di prezioso, da proteggere e salvaguardare.
In generale, a parte l’aumento delle richieste giunte all’associazione Psicologi in Ascolto, confrontandomi con altri colleghi, c’è stato un aumento della richiesta di aiuto psicologico anche da parte di persone che in precedenza non ne avevano usufruito e un abbassamento dell’età dell’utenza che lo ha richiesto.
A novembre 2020 abbiamo deciso di rispondere alle richieste dell’utenza di aprire un nuovo gruppo terapeutico. Già alcuni colleghi avevano ripreso la conduzione dei gruppi in presenza e non c’era spazio per inserire nuove persone.
Ci abbiamo riflettuto a lungo, infatti l’apertura del gruppo era prevista a marzo 2020, nel corso dei mesi abbiamo considerato la possibilità di iniziarlo online, ma a un certo punto abbiamo deciso che dovevamo “rischiare”, prendendo tutte le dovute precauzioni e riconoscerci anche la piena responsabilità di essere una professione sanitaria, così abbiamo deciso di iniziare il gruppo.
Ci siamo resi conto che le persone avevano bisogno, come mai in quel momento, di un luogo dove sentire la presenza degli altri, per evitare che il cosiddetto distanziamento diventasse isolamento.
La pandemia ci ha messi per la prima volta in una condizione comune di restrizioni di fronte a un nemico invisibile, che evoca paure ancestrali e vissuti di impotenza, per cui è nostro dovere infondere e coltivare la speranza, cercando di promuovere la vicinanza emotiva.
In ogni caso è bello riscontrare come attraverso la sperimentazione e l’esperienza si possano superare e affrontare le proprie rigidità e paure.
Chiara D’Andrea – Psicologi in Ascolto
Foto di Alex Green – CC license