Buona scuola e Digital Divide

Una riforma utopistica che non tiene conto dei reali problemi scolastici 

La tecnologia ha un costo, la grande innovazione che ha portato con sé è solo per chi se lo può permettere. Da qui è stato generato il Digital divide (Divario digitale) che ha sottolineato ancor di più le differenze tra una cultura e l’altra, alfabetizzazione compresa. Il mero possesso di un computer, di uno smartphone o di una connessione internet veloce o a fibra non implica un’equa distribuzione delle risorse nella società dell’informazione; anzi è fonte di grande disuguaglianza sociale. Le parole del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, parlano chiaro, quando ha dichiarato ai paesi in via di sviluppo che «oggi essere tagliati fuori dai servizi di telecomunicazione è una difficoltà grave quanto la mancanza di lavoro, cibo, abitazione, assistenza medica, acqua potabile». Ed è proprio così. 

Facendo cenno alla generazione dei nativi digitali, c’è da dire che i ragazzi che usano quotidianamente uno smartphone per connettersi in rete hanno più competenze di coloro che invece non lo usano. A tal riguardo, si delinea in tal senso la possibilità di un divario digitale che in questo esempio è legato ai cellulari di ultima generazione, ma lo stesso vale per tablet e altri dispositivi. Non dovremmo credere che l’Italia è un passo avanti, anche se risulta tra i paesi industrializzati del mondo; difatti secondo delle statistiche gli adolescenti hanno un livello e un numero medio di competenze digitali inferiori rispetto alla media europea. 

Ma questo divario digitale come influenza la didattica? Non si può dare per scontato la presenza degli strumenti e la dotazione informatica, anche se i veri problemi non sono solo quelli. 

Lo scopo della riforma della Buona scuola (legge n. 1072015) era quello di rivoluzionare significativamente l’universo scolastico. Sebbene a volte le cose rimangono solo su carta. Il provvedimento legislativo prevedeva di restituire alla scuola un ruolo centrale, arricchire il budget delle competenze degli studenti, osteggiare le disuguaglianze socio-culturali e sostenere gli alunni a discapito dell’abbandono scolastico. Le aspettative di questa riforma erano alte: la gestione della precarietà anche nel senso economico e politico. Gli insegnanti che devono lavorare nelle scuole dovranno guadagnarsi il posto in base al merito. L’analisi fatta è molto pragmatica. 

Altri punti sono: assumere tutti i docenti di cui la scuola ha bisogno, offrire a tutti loro nuove opportunità di formazione e carriera, rendere tutti autonomi, ripensare ai programmi di studio scolastici, garantire le risorse per una “buona scuola”, pubblica e privata. 

Un traguardo davvero ambizioso. Tuttavia la realtà scolastica a oggi è tutt’altra. Sono molti più di quanti immaginiamo gli studenti che a casa non dispongono di un computer e una connessione internet, dunque nemmeno sanno usarli. A scuola la situazione non è più rosea, dal quadro d’insieme si rileva come l’uso di internet a scopo didattico sia ostacolato principalmente dall’accesso di rete o di hardware. Spesso la scuola è dotata di computer obsoleti, inutilizzabili. Per non parlare del fatto che una parte dei docenti valutano negativamente l’uso di tale strumento, questo sconosciuto, per l’insegnamento. Soprattutto professori over 50 sono restii all’utilizzo delle tecnologie nelle scuole, poiché non sono in grado di usarle. Questo vuol dire che dopo la pandemia c’è ancora chi è rimasto indietro.

La realtà dunque non è come appare, non è quella descritta dalla Buona scuola, riforma dei “desideri”. Fa ben sperare la legge che combatte la precarietà nonostante non sembra sia servita a molto visto il numero degli insegnanti precari che ci sono in Italia, che non hanno alcuna garanzia e non vedono spiragli. Chiedono stabilizzazione. Secondo l’ISTAT, al momento, gli insegnanti precari in Italia sono 715.000, mentre quelli di ruolo sono 729.668, ciò significa che per ogni docente precario ce n’è uno di ruolo. Assurdo. 

Anche alla disposizione che parla di meritocrazia c’è molto da dire, si parla più spesso di corruzione e favoritismi. La meritocrazia vige solo all’apparenza, innumerevoli i casi in cui sono state assegnate cattedre in maniera arbitraria a degli incompetenti, senza osservare le graduatorie. Tanti docenti validi rimangono disoccupati ingiustamente. 

Insomma, molti di questi problemi sono lontani dalla riforma di Renzi e le soluzioni proposte sembravo risolutive, ma i fenomeni reali hanno una natura problematica ben lontana da un esito positivo. Intanto bisogna notare che il diffuso dissenso manifestato dal mondo della scuola è la spia delle problematicità delle presunte soluzioni raggiunte. L’analisi che è stata fatta rimane molto sul pragmatico da perdere di vista la realtà oggettiva e ha limiti di impostazione.

Matteo Alfredo Bocchetti, saggista, nel suo libro La Buona Scuola va! Critiche dei sindacati alla lente di ingrandimento, dice di più: il modello di scuola è considerato insignificante e pericolo se esaminato dal punto di vista dei lavoratori, per le discriminazioni tra docenti e alunni, per i divari retributivi, per la mobilità coatta, per la concentrazione dei poteri nella figura del capo d’istituto, per la formazione obbligatoria considerata inefficace e contraria alla libertà di insegnamento. I sindacati hanno mosso molte altre critiche a questo schema ritenuto privo di un fondamento pedagogico.

Tuttavia le critiche vanno ammesse se servono a dare un contributo al confronto culturale sull’idea di scuola. In questa sede, ciò che ci interessa è esaminare oggettivamente quanto viene descritto dalla riforma e fare un confronto con la realtà, nella maniera più completa e chiara possibile. La critica deve essere argomentata, solo allora sarà costruttiva. Essere positivi rispetto al domani non vuol dire avere degli slanci utopistici pensando al futuro. Inoltre, è doveroso avere un fondamento pedagogico se si vuol parlare di educazione. La Buona scuola è un testo legislativo rinchiuso nell’oggi e nella quotidianità come fosse l’unica cosa che conta. C’è di buono che tale riforma ha scommesso sull’autonomia della scuola, molto è stato affrontato e molto altro è stato lasciato nelle mani di futuri decreti delegati. 

 

Foto di Klimklin