Il gioco: Definizioni e concetti #6

Foto di Yoppi

Questa settimana torniamo a parlare del “gioco” inteso come concetto. Chi segue questa rubrica ormai sa che, ogni tanto, tentiamo di ricordare nomi e fatti che hanno reso il “gioco” un qualcosa da studiare, e non solo da sfruttare. Chi ha scoperto il gioco, milioni di anni fa, probabilmente non si rendeva neanche conto di stare giocando. Ora, tramite alcuni strumenti sociologici, psicologici, etologici e non solo sappiamo anche dare un valore alle idee sul gioco. L’ultima volta che abbiamo parlato dello studio sul “gioco” (esattamente qui) c’eravamo interrogati sulle strane definizioni date da Alex Randolph sul finire degli anni ’80 del secolo scorso. Eravamo rimasti perplessi perché per Randolph il gioco era gioco perché non serviva a niente. Curioso, visto che avevamo cercato in passato di dimostrare che invece il gioco fosse piuttosto importante nello sviluppo di un bambino ad esempio, o addirittura nelle relazioni di umani adulti.

Eppure, qualcosa di simile a ciò che suggeriva Randolph viene proposto da Alberto Recla, che ci ricorda come il gioco si prenda in un certo senso davvero gioco di noi. Tutto questo a partire dall’etimologia stessa: iocus significa scherzo, inganno, burla. Il gioco è qui visto quindi come finzione che segue regole proprie. Poi è lo stesso Recla che cita Bateson, un antropologo: “I messaggi o i segnali scambiati nel gioco sono in un certo senso – afferma Bateson – non veri o non sono quelli che si hanno in mente, ciò che viene denotato dal gioco è inesistente. Il gioco si colloca così nella zona di interazione tra arte, magia e fantasia” (da Simulazione, a cura di Arnaldo Cecchini, p.232-233). Molte volte dobbiamo ammettere che è proprio così: tramite il gioco ci proiettiamo in un’altra realtà (ora bidimensionale, ora tridimensionale, ora addirittura virtuale). Nel gioco ci viene proposto uno scenario nel quale ci si chiede di agire. Perché senza l’azione, e senza regole che appunto dettano i tempi di queste azioni, il gioco non è possibile. Con il gioco non possiamo essere statici, siamo anzi portati a decidere, a compiere delle scelte, e quindi il gioco diventa per forza di cose qualcosa di attivo. In un mondo fatto di fantasia, va bene, ma comunque attivo. E questa attività, delle volte può essere praticata tramite l’immaginazione, che trasforma l’oggetto del gioco che abbiamo davanti (che può essere un dado, una miniatura, un cubetto o un carrarmatino) in qualcosa di reale e concreto.

Tuttavia non sono sicuro che il lettore sappia esattamente la differenza tra immaginazione e fantasia. Lo aiuto citando un passo di un libro scritto da Marcello Ghilardi e Ilenia Salerno (Giochi di Ruolo, edito dalla Tunuè, un libro che abbiamo citato anche in un articolo precedente riguardanti proprio i giochi di ruolo, che potete trovare qui): “Se l’immaginazione è la ritenzione o la produzione di ciò che è assente, infatti, la fantasia è in genere la rielaborazione di questo assente. Una trasformazione o una rielaborazione di dati sensoriali tendono ad allontanarsi di più della realtà percepita e dai dati empirici, mentre la produzione o la ritenzione immaginativa ereditano da tale realtà le modalità di coerenza. Per questo si può dire che la fantasia tende verso l’irreale” (p.82). Tradotto, potremmo dire che mentre l’immaginazione si basa su qualcosa di conosciuto, la fantasia si basa su un qualcosa di sconosciuto ed irreale.

Ma torniamo al gioco. Si diceva che regole, azione e movimento sono tre componenti fondamentali del gioco. Ma, nel gioco che noi stiamo intendendo in questi nostri incontri scritti, dobbiamo ricordare il “non azzardo” e la “non responsabilità” del giocatore stesso, che è chiamato ad abbandonare in qualsiasi momento il gioco stesso, qualora lo ritenga opportuno. E forse è proprio questa “non responsabilità” a lasciare la mente libera al giocatore, e a farlo agire quasi in totale spontaneità nelle sue scelte. Insomma, se un giocatore dovesse sbagliare una mossa la sua vita non sarebbe affatto rovinata. È probabile che alla prossima partita non commetterà lo stesso errore. E forse, proprio a causa di questo “non cambiamento” alla fine tutto finisce li, e questo “finire li”, per Recla come per Bateson, rappresenta lo scherzo, l’inganno, ma anche, per estensione del senso, un inquietante nulla. Siamo dunque lontani dalle definizioni date da Caillois, che tra l’altro non contemplavano il gioco separato dall’azzardo (ne parlammo qui). Per Caillois alla fine di un gioco c’era spostamento di beni (non produzioni). Si ricordava l’esempio del poker: alla fine di una partita qualcuno era più ricco, e qualcun altro più povero, ma la somma dei beni era la stessa di quella iniziale.

Tornando a Recla, c’è da dire che per dare ancora più valore alle sue idee, egli conclude il suo pensiero riassumendo gli elementi che secondo lui caratterizzano i giochi: lo scopo; i giocatori; i loro obiettivi; le loro strategie; le regole e le mosse del gioco; le fasi della partita che si ripetono; il sistema di punteggio o di attribuzione della vincita, perdita, partità; l’eventuale struttura matematica del gioco.

Ma di questi punti, in particolare, parleremo più approfonditamente nei nostri prossimi incontri, perché saranno proprio questi punti, analizzati nello specifico, a farci avvicinare ancora di più ad una definizione universale di gioco.

Matteo Roberti